Questo racconto appassionato è una testimonianza vera che mi ha fatto molto riflettere. L'autrice, con delicatezza e lucido tono cronistico ha sollevato il velo che copre la quotidianità di una famiglia afgana. Non una famiglia afgana qualunque: come dice la stessa Asne Seierstad la famiglia di Sultan non è la tipica famiglia che vive in un paese squassato dalla guerra e che tenta una faticosa ricostruzione.
Questa è una famiglia borghese, se di borghesia si può parlare in un paese come l'Afghanistan. Sultan è l'ultimo venditore di libri rimasto a Kabul, una città devastata dalla guerra e che fatica a riprendersi la libertà che il regime talebano ha cercato di annientare.
E' affascinante cercare di comprendere questo personaggio in bilico tra tra più ferrea osservazione della tradizione islamica e il rivendicare il diritto alla libertà intellettuale che gli è costata anche la reclusione in carcere.
Questa è una famiglia borghese, se di borghesia si può parlare in un paese come l'Afghanistan. Sultan è l'ultimo venditore di libri rimasto a Kabul, una città devastata dalla guerra e che fatica a riprendersi la libertà che il regime talebano ha cercato di annientare.
E' affascinante cercare di comprendere questo personaggio in bilico tra tra più ferrea osservazione della tradizione islamica e il rivendicare il diritto alla libertà intellettuale che gli è costata anche la reclusione in carcere.
La giornalista svedese durante la sua permanenza a Kabul, ha potuto godere di un punto di vista privilegiato: in quanto donna ha avuto accesso all'intimità della vita domestica delle donne che compongono la famiglia del libraio; poiché occidentale ha potuto muoversi anche nel mondo maschile, quasi del tutto precluso alle donne, ancora oggi.
Il libro è anche, forse soprattutto, un racconto della condizione femminile nella società islamica: i matrimoni combinati, l'impossibilità di scelta, la severità delle punizioni. Ma non è una denuncia violenta di questa condizione, agli occhi di noi occidentali incomprensibile: è piuttosto il racconto della rassegnazione con cui le donne vivono questa condizione, timorose di usufruire anche di quelle minime libertà a cui avrebbero diritto oggi, dopo la caduta del regime instaurato dagli studenti fondamentalisti. Come ad esempio togliere il burka, che però, forse è l'unica protezione che hanno verso un mondo a loro ostile.
Il racconto della prima primavera di Kabul è il racconto di una città che tenta di lasciarsi l'inverno alle spalle, ma che sa che per rifiorire dovrà ancora mangiare la polvere che turbina nelle strade e si infila nelle case della città.
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