Ciao Tina, ora tu corri spensierata per i Campi Elisi...
Il tuo abbaiare festoso, le tue corse dietro alle biciclette, le tue moine per avere ancora un biscotto... tutto questo e molto di più, resterà per sempre nei nostri cuori!
RACCONTI E IMPRESSIONI DI UNA MAMMA CURIOSONA, AMANTE DELLA BELLEZZA DELLE PICCOLE COSE.
Ora, cosa fa una mamma-casalinga disperata in un pomeriggio gelido, mentre il bandito raffreddato russa nel lettone che non lo tirano giù nemmeno le scampanate festose che annunciano che in paese è nato un bimbo?? Ovvio: la povera donna esausta dalle faccende domestiche lasciate in arretrato, ignora la pila di panni lavati in attesa di essere stirati o perlomeno piegati e riposti in armadio, viene colta da un raptus culinario e dicide di fare una sorpresa per merenda al baby bandito. Armata di pignatte e friggitrice, indossa un grembiule tirolese che la fa assomigliare a Heidi e si mette a spulciare tra le ricette dei dolci carnevaleschi, solitamente, fritti, caloricissimi e dolcissimi. Poi la mamma-casalinga disperata, si ricorda di un passato che fu, in cui da brava studiosa indagava sull'origine di usanze e costumi e pensa bene di accantonare il ricettario veenziano su cui si è soffermata e di dare una sbirciatina ai vari libri che fanno capolino dalla libreria e che narrano la gloria e le tradizioni della Serenissima Repubblica di San Marco.
Ed eccomi con un altro post carnevalesco. Non che il carnevale sia una festa che sento particolarmente: almeno fino a quando non mi sono trovata un teppistello di 18 mesi che saltella per casa nel tentativo di decapitarmi con la sciabola dei pirati (!), non avrei mai pensato di dedicarmi alla realizzazione di costumi e mascherine in vista della festa in machera a cui è stato invitato il piccolo bucaniere in erba. C'è un aspetto però che mi ha sempre incuriosita di questo periodo (e qui viene fuori la mia natura di storica paranoica e indagatrice!): le origini delle maschere, da sempre protagoniste nelle sfilate carnevalesche. In questo contesto, Venezia, la mia città adottiva, ha un posto d'onore, a partire dai tempi lontani della Commedia dell'Arte.
Balanzone anzi il dottor Balanzone, è nato a Bologna, e deve il suo nome alla balanza, cioè la bilancia, il simbolo della giustizia che regna nei tribunali.
Brighella è un imbroglione, chiacchierone, insolente con i sottoposti ed insopportabilmente ossequioso con i padroni. Questo è il cuoco, il cameriere, il capo servitù Brighella da Bergamo.
Capitan Spaventa arriva dalla Liguria. E' uno spadaccino coraggioso ma preferisce usare più la lingua che la spada, prendendo in giro gli ufficiali del suo tempo. Porta lunghi baffi e pizzo al mento, indossa un vestito a strisce arancioni e gialle, cappello a tesa larga con piume, stivali e spada lunghissima che tocca terra e fa uno spaventoso rumore.
deciso a sposarla. Il suo nome sembra derivare dalle interpretazioni dell’attrice Isabella Franchini, che vestiva i panni della fantesca con un paniere sotto braccio da cui si intravedevano due colombe. Colombina indossa una cuffietta, un corpetto verde stretto in vita, con una profonda scollatura ed ampie maniche a sbuffo, la gonna arricciata a righe e rialzata sul davanti da un nastro di raso rosso, un grembiule bianco e scarpine bianche a punta con nastro rosso. E’ di sicuro la più famosa fra le servette, giovane e arguta, dalla parola facile e maliziosa, abile a risolvere con destrezza le situazioni più intricate.
Gianduja è la maschera popolare di Torino. Dal suo nome deriva quello della cioccolata gianduia e del famoso cioccolatino "Gianduiotto". Il vero nome di Gianduja era Girolamo della Grigna. E’ un intenditore di vini doc e la sua vera passione sono le osterie. E’ un galantuomo allegro dotato di buon senso e coraggio che ama, oltre al buon vino, anche la buona tavola. Scaltro e arguto, ha un costume di panno color marrone, bordato di rosso, con un panciotto giallo e le calze rosse. Osservandolo attentamente, qualcuno azzarda una certa allusione antinapoleonica nel suo travestimento. Del r
esto la maschera è nata alla fine del '700, in pieno regime bonapartista.
Meneghino (diminutivo di Domeneghin), inconfondibile con il suo cappello a tre punte e la parrucca con codino alla francese, vestito di una lunga giacca marrone, calzoni corti e calze a righe rosse e bianche, ancora oggi è protagonista dei carnevali milanesi. Meneghino impersona un servitore rozzo ma di buon senso che, desideroso di mantenere la sua libertà, non fugge quando deve schierarsi al fianco del suo popolo. Generoso e sbrigativo, è abile nel deridere i difetti degli aristocratici. "Domenighin" era il soprannome del servo, che la domenica accompagnava le nobildonne milanesi a messa o a passeggio. Durante l'insurrezione delle Cinque Giornate di Milano nel 1848 fu scelto dai milanesi come simbolo di eroismo.
Pierrot. Larghi pantaloni di lucida seta bianca, lunga casacca guarnita di grossi bottoni neri, ampio colletto, papalina sul capo, volto pallido e un'espressione triste: questo è Pierrot, l’innamorato malinconico e dolce.
Pulcinella è degno compare di Arlecchino e talvolta il suo rivale, specie negli intrighi d'amore. Pulcinella é fra le maschere più popolari e simpatiche ed è il simbolo di Napoli e del suo popolo. Impersona lo spirito genuino, fatto di arguzia di spontaneità e di generosità. Appare sulle scene nelle vesti di un servo furbo e poltrone, sempre affamato e alla ricerca di qualcosa da mettere sotto ai denti. Come Arlecchino, Pulcinella si adatta a fare di tutto oltre al servo: eccolo di volta in volta, fornaio, oste, contadino, mercante, ladruncolo e ciarlatano, che ritto su uno sgabello di legno, in uno spiazzo fra i vicoli di Napoli, cerca di smerciare i suoi intrugli "miracolosi" a quanti gli stanno attorno a naso ritto, richiamati dalla sua voce chioccia e dai suoi larghi gesti delle braccia. Credulone, litigioso, arguto, un po' goffo nel camminare, Pulcinella é in continuo movimento, sempre pronto a tramare qualche imbroglio o a fare dispetti. Ha anche un carattere mattacchione e, quando qualcosa gli va per il verso giusto, esplode in una danza fatta di vivaci e rapidi saltelli, di sberleffi e di smorfie gustosissime a vedersi. Incapace di starsene zitto quando dovrebbe, proprio per questo é rimasta famosa l'espressione "é un
segreto di Pulcinella" per dire di qualcosa che tutti sanno. 
a loro.
Siamo a ridosso della festa più colorata dell'anno. Memore dei mio passato di maestrina dalla penna rossa, ho messo sotto il piccolo Alessandro con mascherine di carta, tempera e porporina. La mia cucina sembra un laboratorio di un mascheraio veneziano e Ale sta scoprendo che la tempera sciolta non è poi così male nemmeno al palato (!). Tra una lavatrice per lavare l'ennesima felpa piena di macchie variopinte e un'uso smodato di sgrassatore per cercare di tirare via la colla dai termosifoni, mi è venuto in mente di fare qualche ricerca sulle usanze tipiche di questo periodo. Ed ecco il primo di una serie di post "carnevaleschi". Nelle prossime puntate, altre curiosità, idee per i bimbi (perdonate le manie di una mamma!) e qualche ricetta!
I coriandoli sono piccoli ritagli di carta colorata usati nelle festività per essere lanciati in aria o su persone. Tipici del Carnevale e di altre festività come il Capodanno, spesso il loro uso è abbinato a quello delle stelle filanti. In inglese, tedesco, francese, olandese, svedese e in spagnolo sono stranamente chiamati con il termine italiano di "confetti". L'origine della confusione linguistica ha origine nel Rinascimento quando in Italia durante le sfilate di carrozze, tipiche di molte città, venivano gettati sulla folla mascherata granoturco ed arance, fiori, gusci d’uovo ripieni di essenze profumate, monete.. È attestato che già prima del 1597 i confetti stessi erano anche chiamati coriandoli «cuopronsi i coriandoli di zucchero per confetti», ovvero si utilizzassero talora i semi della pianta del coriandolo al posto delle mandorle per realizzare i piccoli dolci. Questa usanza, piuttosto costosa, cadde presto in disuso e i confetti bianchi vennero gradualmente sostituiti da piccole pallottole, di identico aspetto, ma fatte di gesso. 

Per riprendere a scrivere su queste pagine, ho deciso di "raccontare" un personaggio che a me piace molto, come donna ecome artista:Artemisia Gentileschi.
casa, frequentata assiduamente da altri pittori, amici e colleghi del padre. La prima opera attribuita alla diciassettenne Artemisia è la Susanna e i vecchioni del 161o. La tela lascia intravedere come, sotto la guida paterna, Artemisia, oltre ad assimilare il realismo del Caravaggio, non sia indifferente al linguaggio della scuola bolognese, che aveva preso le mosse da Annibale Carracci. Per la critica è stato impossibile non associare la pressione esercitata dai due vecchioni su Susanna al complesso rapporto di Artemisia con il padre e con Agostino Tassi, il pittore che nel 1611 la stuprò. Il padre denunciò il Tassi che dopo la violenza, non aveva potuto "rimediare" con un matrimonio riparatore. Del processo che ne seguì è rimasta esauriente testimonianza documentale, che colpisce per la crudezza del resoconto di Artemisia e per i metodi inquisitori del tribunale. Gli atti del processo (conclusosi con una lieve condanna del
Tassi) hanno avuto grande influenza sulla lettura in chiave femminista, data alla figura di Artemisia Gentileschi. La tela, che raffigura Giuditta che decapita Oloferne, impressionante per la violenza della scena che raffigura, è stata interpretata in chiave psicologica e psicanalitica, come desiderio di rivalsa rispetto alla violenza subita. Dopo la conclusione del processo, Orazio combinò per Artemisia un matrimonio con Pierantonio Stiattesi. A Firenze Artemisia conobbe un lusinghiero successo. Nel 1616 venne accettata nell'Accademia delle Arti e del Disegno, prima donna a godere di tale privilegio; dimostrò di saper tenere buoni rapporti con i più reputati artisti del tempo e di saper conquistare i favori e la protezione di persone influenti. Tra i suoi estimatori ebbe un posto di speciale rilievo Michelangelo Buonarroti il giovane, il nipote di M
ichelangelo: impegnato a celebrare la memoria dell'illustre antenato, questi affidò ad Artemisia l'esecuzione di una tela. La tela in questione rappresenta una Allegoria dell'Inclinazione (ossia del talento nat
urale). Nel 1621 Artemisia lasciò il marito e tornò a Roma con le figlie. Artemisia dimostrò di avere la giusta sensibilità per cogliere le novità artistiche e la giusta determinazione per vivere da protagonista questa straordinaria stagione artistica di Roma, lanciata verso i virtuosismi del barocco e meta obbligata di artisti di tutta Europa. Tra il 1627 ed il 1630 si stabilì, forse alla ricerca di migliori commesse, a Venezia: lo documentano gli omaggi che ricevette da letterati della città lagunare che ne celebrarono le qualità di pittrice. Nel 1630 Artemisia si recò a Napoli, valutando che vi potessero essere, in quella città fiorente di cantieri e di appassionati di belle arti, nuove e più ricche possibilità di lavoro. L'esordio artistico di Artemisia a Napoli è rappresentato forse dalla Annunciazione del Museo di Capodimonte.Poco più tardi il trasferimento nella metropoli partenopea fu definitivo e lì l'artista sarebbe rimasta, salvo la parentesi inglese,per il resto della sua vita. Napoli fu dunque per Artemisia una sorta di seconda patria dove ricevette attestati di grande stima ed ebbe rapporti di scambio alla pari con i maggiori artisti che vi erano presenti. Nel 1638 Artemisia raggiunse il padre a Londra, presso la corte di Carlo I, dove Orazio era diventato pittore di corte. Dopo tanto tempo padre e figlia si ritrovarono legati da un rapporto di collaborazione artistica. Orazio inaspettatamente morì, assistito dalla figlia, nel 1639. Carlo I era un collezionista fanatico e la fama di Artemisia doveva averlo incuriosito: non è un caso che nella sua collezione fosse presente una tela di Artemisia di grande suggestione, l'Autoritratto in veste di Pittura. Alle prime avvisaglie della guerra civile, Artemisia lasciò l'Inghilterra e tornò a Napoli dove si spense nel 1653.