La mia vita è cambiata da quando sono diventata mamma... Allora mi sono detta: "deve cambiare anche il mio blog!". E questo è quello che ne è saltato fuori!

lunedì 8 marzo 2010

CIAO TINA

Ciao Tina, ora tu corri spensierata per i Campi Elisi...
Il tuo abbaiare festoso, le tue corse dietro alle biciclette, le tue moine per avere ancora un biscotto... tutto questo e molto di più, resterà per sempre nei nostri cuori!

martedì 9 febbraio 2010

DOLCI DI CARNEVALE: FRITTELLE VENEZIANE

Ora, cosa fa una mamma-casalinga disperata in un pomeriggio gelido, mentre il bandito raffreddato russa nel lettone che non lo tirano giù nemmeno le scampanate festose che annunciano che in paese è nato un bimbo?? Ovvio: la povera donna esausta dalle faccende domestiche lasciate in arretrato, ignora la pila di panni lavati in attesa di essere stirati o perlomeno piegati e riposti in armadio, viene colta da un raptus culinario e dicide di fare una sorpresa per merenda al baby bandito. Armata di pignatte e friggitrice, indossa un grembiule tirolese che la fa assomigliare a Heidi e si mette a spulciare tra le ricette dei dolci carnevaleschi, solitamente, fritti, caloricissimi e dolcissimi. Poi la mamma-casalinga disperata, si ricorda di un passato che fu, in cui da brava studiosa indagava sull'origine di usanze e costumi e pensa bene di accantonare il ricettario veenziano su cui si è soffermata e di dare una sbirciatina ai vari libri che fanno capolino dalla libreria e che narrano la gloria e le tradizioni della Serenissima Repubblica di San Marco.


Se vi trovate a Venezia nel periodo di Carnevale non potrete esimervi dall’assaggiare quello che per secoli è stato considerato il dolce nazionale della Repubblica Serenissima, la frittella o fritola che si gustava, e si gusta tuttora, non solo a Venezia, ma in tutto il territorio veneto friulano, fin quasi alle porte di Milano. La frittella veniva prodotta esclusivamente dai “fritoleri” che, quasi a sottolineare questa loro ufficialità, nel '600 si costituirono in un associazione che era composta da settanta di loro, ognuno con una propria area dove poter esercitare in esclusiva l'attività commerciale e con la garanzia che a loro potevano succedere solo i figli. Questa corporazione rimase attiva fino alla caduta della Repubblica lagunare, anche se l'arte dei "fritoleri" scomparve definitivamente dalle calli veneziane solo alla fine dell'ottocento. Gli storici raccontano che i fritoleri fossero soliti impastare le frittelle, fatte con uova, farina, zucchero, uvetta e pinoli, su grandi tavoli di legno. Poi le friggevano con olio, grasso di maiale o burro, in enormi padelle sostenute da tripodi. Una volta pronte venivano cosparse di zucchero e sistemate su grandi piatti decorati, al loro fianco, su altri piatti, erano esposti in bella vista gli ingredienti allo scopo di sottolineare la genuinità del prodotto. Anche se l'autentica frittella rimane comunque quella veneziana, in tutto il Veneto si diffusero ricette locali,che prevedono frittelle confezionate con frutta immersa nella pastella o con fiori o con ortaggi, in certi casi perfino con erbe spontanee di prato e di monte e ancora con il riso e la polenta. Ma l'influenza della "fritola" contagiò anche altre culture, tanto che troviamo perfino una frittola ebraica, che gli Ebrei veneziani preparano ancor oggi in occasione della Festa del Purim.

RICETTA:

Ingredienti (per 6 persone): 400 g di farina, 100 g di uvetta sultanina, 1 cucchiaio di zucchero, 2 uova; circa 1 bicchiere di latte, 1 bicchierino di rhum, 30 g di lievito di birra, sale, olio di arachide per friggere e zucchero a velo per le frittelle.
Preparazione: Sciacquate l'uvetta e fatela ammollare in acqua tiepida. Sbriciolate il lievito in una tazza e diluitelo con 3 cucchiai di acqua tiepida. Setacciate la farina in una ciotola e mescolatela con lo zucchero e un pizzico di sale. Disponetela a fontana e incorporatevi le uova, il rhum e il lievito diluito. Mescolate gli ingredienti, aggiungendo tanto latte, appena tiepido, quanto ne serve per avere una pastella densa, quindi scolate l'uvetta e asciugatela. Coprite la ciotola con un coperchio e mettete il composto a lievitare in un luogo tiepido fino a quando il suo volume non sarà raddoppiato. Mettete sul fuoco una padella con olio molto abbondante in modo che le frittelle vi galleggino dentro, e quando sarà ben caldo, versatevi l'impasto a cucchiaiate. Quando avranno assunto un colore piuttosto scuro, toglietele dal fuoco, asciugate l'olio in eccesso e spolveratele con lo zucchero a velo.

P.S. Alessandro ne ha mangiate sette di fritole, io (tenetevi forte!)...DODICI!!! E non ho nemmeno più la scusa che sto allattando per dire che ho bisogno di calorie...Va beh: è inverno, fa freddo e come le marmotte immagazzino grasso che al disgelo provvederò a bruciare con lunghe passegiate i per campi in compagnia del bandito!

mercoledì 3 febbraio 2010

ASPETTANDO CARNEVALE 2: TI CONOSCO MASCHERINA!

Ed eccomi con un altro post carnevalesco. Non che il carnevale sia una festa che sento particolarmente: almeno fino a quando non mi sono trovata un teppistello di 18 mesi che saltella per casa nel tentativo di decapitarmi con la sciabola dei pirati (!), non avrei mai pensato di dedicarmi alla realizzazione di costumi e mascherine in vista della festa in machera a cui è stato invitato il piccolo bucaniere in erba. C'è un aspetto però che mi ha sempre incuriosita di questo periodo (e qui viene fuori la mia natura di storica paranoica e indagatrice!): le origini delle maschere, da sempre protagoniste nelle sfilate carnevalesche. In questo contesto, Venezia, la mia città adottiva, ha un posto d'onore, a partire dai tempi lontani della Commedia dell'Arte.
Allora, ho pensato di rinfrescare un po' la mia e la vostra memoria e di fare una piccola raccolta delle maschere tradizionali più celebri. Se qualcuno volesse segnalare qualche maschera tradizionale non menzionata, gliene sarò grata.

Arlecchino è un servo di Bergamo, lazzarone e truffaldino, in perenne litigio col suo padrone. Nonostante sia nato in provincia di Bergamo, il suo nome deriva dal medioevo francese: Harlequin, o Herlequin o Hellequin si chiamava un diavolo nei misteri popolari del sec. XI. Ha un carattere stravagante e scanzonato, ma furbo. Grande maestro delle burle è il più testardo di tutti i personaggi. Indossa un vestito di pezze colorate fermate da una cintura, pantaloni larghi e comodi, un cappellaccio sformato con pennacchio di coda di coniglio o una piuma e una maschera nera sugli occhi: la piuma è simbolo di fertilità e il coniglio è simbolo di furbizia. Alla cintura porta appeso il baòcio, il bastone per mescolare la polenta, che per lui funge da spada. Lo scaricatore di porto, il facchino, il ruffiano, il servitore buono, il semplicione che combina guai e che ha sempre fame: tutti questi ruoli ha Arlecchino. Deriva dalla figura dello Zanni, il buffone della prima Commedia dell’Arte, di cui mantiene il carattere schietto e la naturale propensione ai guai.

Balanzone anzi il dottor Balanzone, è nato a Bologna, e deve il suo nome alla balanza, cioè la bilancia, il simbolo della giustizia che regna nei tribunali.
Il Dottore infatti è solitamente rappresentato come un uomo di legge, che si intende di tutto ed esprime opinioni su ogni cosa. Caratterizzato da una certa verbosità, tende ad infarcire di citazioni latine e ragionamenti strampalati i suoi discorsi sulla filosofia, le scienze, la medicina, la legge e si esprime sempre con un fortissimo accento bolognese. Si veste con pantaloni e camicia nera, guarnita di un colletto bianco, in testa ha un cappello a larghe tese, nero. Alla cintura porta un pugnale o un fazzoletto, e sotto braccio un librone. E' la satira del laureato saccente e pedante. Non a caso viene da Bologna, città che nel Cinquecento è considerata capitale della cultura.


Brighella è un imbroglione, chiacchierone, insolente con i sottoposti ed insopportabilmente ossequioso con i padroni. Questo è il cuoco, il cameriere, il capo servitù Brighella da Bergamo.
E' l'antagonista di Arlecchino e primo Zanni della Commedia dal carattere scaltro e astuto. L'abito che Brighella si vanta di indossare è la livrea, simbolo dell'appartenenza al padrone: calzoni larghi e giacca bianchi listati di verde, un mantello bianco, anch’esso con due strisce verdi, un berretto a sbuffo e la mezza maschera sul viso. E' con questa uniforme che esercita il suo potere sui servitori semplici.

Capitan Spaventa arriva dalla Liguria. E' uno spadaccino coraggioso ma preferisce usare più la lingua che la spada, prendendo in giro gli ufficiali del suo tempo. Porta lunghi baffi e pizzo al mento, indossa un vestito a strisce arancioni e gialle, cappello a tesa larga con piume, stivali e spada lunghissima che tocca terra e fa uno spaventoso rumore.

Colombina la servetta veneziana, è la fidanzata di Arlecchino, anche se lui non pare deciso a sposarla. Il suo nome sembra derivare dalle interpretazioni dell’attrice Isabella Franchini, che vestiva i panni della fantesca con un paniere sotto braccio da cui si intravedevano due colombe. Colombina indossa una cuffietta, un corpetto verde stretto in vita, con una profonda scollatura ed ampie maniche a sbuffo, la gonna arricciata a righe e rialzata sul davanti da un nastro di raso rosso, un grembiule bianco e scarpine bianche a punta con nastro rosso. E’ di sicuro la più famosa fra le servette, giovane e arguta, dalla parola facile e maliziosa, abile a risolvere con destrezza le situazioni più intricate.

Gianduja è la maschera popolare di Torino. Dal suo nome deriva quello della cioccolata gianduia e del famoso cioccolatino "Gianduiotto". Il vero nome di Gianduja era Girolamo della Grigna. E’ un intenditore di vini doc e la sua vera passione sono le osterie. E’ un galantuomo allegro dotato di buon senso e coraggio che ama, oltre al buon vino, anche la buona tavola. Scaltro e arguto, ha un costume di panno color marrone, bordato di rosso, con un panciotto giallo e le calze rosse. Osservandolo attentamente, qualcuno azzarda una certa allusione antinapoleonica nel suo travestimento. Del resto la maschera è nata alla fine del '700, in pieno regime bonapartista.

Giacometta è il naturale complemento di Gianduja; coraggiosa e pratica come il marito, mette con generosità il proprio buon senso a disposizione di chi deve risolvere un problema spinoso. Il prototipo della maschera si avvicina a quello della servetta, maliziosa e dal carattere forte ma gentile. Il costume è caratterizzato da una gonna lunga e larga, di ispirazione agli indumenti folkloristici piemontesi alla quale accompagna una camicia con scialle ed un alo copricapo che le serra la chioma. I due personaggi videro la luce circa 300 anni fa ad Asti sotto forma di burattini, per poi divenire maschere del carnevale e personaggi di altri generi teatrali.

Meneghino (diminutivo di Domeneghin), inconfondibile con il suo cappello a tre punte e la parrucca con codino alla francese, vestito di una lunga giacca marrone, calzoni corti e calze a righe rosse e bianche, ancora oggi è protagonista dei carnevali milanesi. Meneghino impersona un servitore rozzo ma di buon senso che, desideroso di mantenere la sua libertà, non fugge quando deve schierarsi al fianco del suo popolo. Generoso e sbrigativo, è abile nel deridere i difetti degli aristocratici. "Domenighin" era il soprannome del servo, che la domenica accompagnava le nobildonne milanesi a messa o a passeggio. Durante l'insurrezione delle Cinque Giornate di Milano nel 1848 fu scelto dai milanesi come simbolo di eroismo.

Pantalone Nasce nella laguna veneziana. E' un personaggio bonario e pieno di umanità, nonostante il suo continuo brontolare. E’ chiamato il Magnifico ed è un vecchio e ricco mercante che ha un grosso difetto: è estremamente avaro ed è solito preparare pranzi con un solo quarto di zecchino. Il nome Pantalone deriva da “Pianta Leone”, come venivano definiti coloro che, con la scusa di conquistare nuove terre per Venezia, si sbrigavano a piantare la bandiera di San Marco su ogni pezzo di terra che trovavano. Indossa uno zucchetto, giubba e calzamaglia rossi, con babbucce e mantello nero.

Pierrot. Larghi pantaloni di lucida seta bianca, lunga casacca guarnita di grossi bottoni neri, ampio colletto, papalina sul capo, volto pallido e un'espressione triste: questo è Pierrot, l’innamorato malinconico e dolce.
La pigrizia gli impedisce di muoversi come gli altri personaggi della Commedia; é sicuramente il più intelligente dei servi: svelto nel linguaggio, critica gli errori dei padroni e spesso finge di non capire i loro ordini, anzi li esegue al contrario, non per stupidità, ma perché li ritiene sbagliati. E' furbo, ma sentimentale; l'unico personaggio che a un piatto di minestra, preferisce una romantica serenata, eseguita sulla mandola, sotto le finestre della sua bella. Forse anche per questa ragione é pallido e languido e, spesso, una lacrima gli scende sul viso.


Pulcinella è degno compare di Arlecchino e talvolta il suo rivale, specie negli intrighi d'amore. Pulcinella é fra le maschere più popolari e simpatiche ed è il simbolo di Napoli e del suo popolo. Impersona lo spirito genuino, fatto di arguzia di spontaneità e di generosità. Appare sulle scene nelle vesti di un servo furbo e poltrone, sempre affamato e alla ricerca di qualcosa da mettere sotto ai denti. Come Arlecchino, Pulcinella si adatta a fare di tutto oltre al servo: eccolo di volta in volta, fornaio, oste, contadino, mercante, ladruncolo e ciarlatano, che ritto su uno sgabello di legno, in uno spiazzo fra i vicoli di Napoli, cerca di smerciare i suoi intrugli "miracolosi" a quanti gli stanno attorno a naso ritto, richiamati dalla sua voce chioccia e dai suoi larghi gesti delle braccia. Credulone, litigioso, arguto, un po' goffo nel camminare, Pulcinella é in continuo movimento, sempre pronto a tramare qualche imbroglio o a fare dispetti. Ha anche un carattere mattacchione e, quando qualcosa gli va per il verso giusto, esplode in una danza fatta di vivaci e rapidi saltelli, di sberleffi e di smorfie gustosissime a vedersi. Incapace di starsene zitto quando dovrebbe, proprio per questo é rimasta famosa l'espressione "é un segreto di Pulcinella" per dire di qualcosa che tutti sanno.

Rugantino Il suo nome deriva senza dubbio da "rugare" cioé brontolare, borbottare. Il romanissimo Rugantino rappresenta il "bullo romano", disposto a prenderle fino a restare tramortito pur di avere l'ultima parola. "Meglio perde n'amico che na buona risposta" é una delle sue frasi preferite. Agli inizi della sua carriera lo si vede vestito come un gendarme, o capo delle guardie, sempre pronto ad arrestare qualche innocente per dimostrare la propria forza, litigioso e inconcludente. Con il tempo smetterà l'abbigliamento militare e, vestiti panni civili, smusserà il suo carattere negativo per assumere un carattere più pigro e bonario che ne farà l'interprete di una Roma popolare ricca di sentimenti di solidarietà e giustizia. Indossa pantaloni, gilet e giacca rossi, calza scarpe con grandi fibbie e porta un cappello a due punte.

Scaramuccia è una maschera napoletana, della Campania. Indossa un berretto nero alla basca che sembra una cuffia da letto e sul viso porta una maschera nera. La giubba è corta a righe nere e grigie scure con il colletto bianco alla Stuarda, fatto di pizzo, la porta sborsata con una cinta; sopra indossa un mantello nero. I calzoni sono a metà ginocchio, completati da lunghe calze, le scarpe sono nere e a punta e hanno un fiocchetto all'altezza della caviglia. E' un tipo spaccone, ma, in realtà, sta quasi sempre in silenzio, in un modo o nell'altro prende ogni giorno qualche botta! E' uno scansafatiche eccezionale, come lui non c'è nessuno! La maschera di Scaramuccia appartiene alla serie dei Capitani. La più antica raffigurazione risale ai primi del Seicento, ad opera dell'incisore francese Jacques Callot.

Stenterello è una tipica maschera fiorentina. Uomo intelligente e scaltro, ama i giochi di parole ed è noto anche per la sua grande umanità che fa sì che Stenterello accetti con grande filosofia tutte le cose che le sue avventure gli mettono di fronte. Umorista schietto, spesso diventa acido coi potenti. Stenterello fu ideato nel XVIII secolo dall'attore fiorentino Luigi Del Buono, creatore di brillanti commedie popolari che era, proprio come il suo personaggio Stenterello, magro, sparuto, gracilissimo, come colui "che pare cresciuto a stento". Piccolo di statura, di carnagione giallastra, la fronte spaziosa e le ciglia arcuate, aveva una naturale predisposizione alla recitazione briosa e alla composizione di dialoghi comici sia in versi che in prosa. Il costume di Stenterello è allegro e frizzante come il personaggio e ricorda l'epoca della sua nascita: il settecento. Partendo dall'alto ha il tricorno nero o una lucerna con fregio, una giacca (zimarra) o giubba a falde di color azzurro chiaro o blu, sopra ad una sottoveste sgargiante, panciotto giallo canarino, dei calzoni corti neri (a volte neri e verdi), una calza di cotone rossa ed una fantasia, o due diverse tra loro.

Tartaglia ha origini veronesi. Servo balbuziente, su questa caratteristica costruisce tutta la sua comicità. per esempio può accadere che, parlando di Pantalone, dica co-co-co in modo tale che non si capisca se questo è cornuto o contento. Il pubblico ride e sghignazza. Maschera caratterizzata oltre che da un' inguaribile balbuzie, da una forte miopia, è generalmente compresa, insieme a Pantalone e il Dottore, nel gruppo dei vecchi apparendo in numerosi scenari nella parte di uno degli Innamorati.

venerdì 29 gennaio 2010

ASPETTANDO CARNEVALE: STORIA DEI CORIANDOLI

Siamo a ridosso della festa più colorata dell'anno. Memore dei mio passato di maestrina dalla penna rossa, ho messo sotto il piccolo Alessandro con mascherine di carta, tempera e porporina. La mia cucina sembra un laboratorio di un mascheraio veneziano e Ale sta scoprendo che la tempera sciolta non è poi così male nemmeno al palato (!). Tra una lavatrice per lavare l'ennesima felpa piena di macchie variopinte e un'uso smodato di sgrassatore per cercare di tirare via la colla dai termosifoni, mi è venuto in mente di fare qualche ricerca sulle usanze tipiche di questo periodo. Ed ecco il primo di una serie di post "carnevaleschi". Nelle prossime puntate, altre curiosità, idee per i bimbi (perdonate le manie di una mamma!) e qualche ricetta!
I coriandoli sono piccoli ritagli di carta colorata usati nelle festività per essere lanciati in aria o su persone. Tipici del Carnevale e di altre festività come il Capodanno, spesso il loro uso è abbinato a quello delle stelle filanti. In inglese, tedesco, francese, olandese, svedese e in spagnolo sono stranamente chiamati con il termine italiano di "confetti". L'origine della confusione linguistica ha origine nel Rinascimento quando in Italia durante le sfilate di carrozze, tipiche di molte città, venivano gettati sulla folla mascherata granoturco ed arance, fiori, gusci d’uovo ripieni di essenze profumate, monete.. È attestato che già prima del 1597 i confetti stessi erano anche chiamati coriandoli «cuopronsi i coriandoli di zucchero per confetti», ovvero si utilizzassero talora i semi della pianta del coriandolo al posto delle mandorle per realizzare i piccoli dolci. Questa usanza, piuttosto costosa, cadde presto in disuso e i confetti bianchi vennero gradualmente sostituiti da piccole pallottole, di identico aspetto, ma fatte di gesso.
Pare che a Milano, nel XIX secolo, si cominciò a tirare qualcosa di diverso: minuscoli dischetti di carta bianca che al minimo refolo di vento si sollevavano in aria, come se una nevicata ricoprisse i carri che sfilavano. La geniale trovata si deve, secondo la leggenda, all'inventiva dell'ingegner Enrico Mangili di Crescenzago che iniziò a commercializzare come coriandoli i cerchi di carta di scarto, ricavati dalle carte traforate utilizzate in sericoltura per l'allevamento dei bachi da seta.
I coriandoli cominciarono ad essere prodotti a livello industriale e non più come materiale di scarto, utilizzando anche carta colorata grazie anche all'invenzione dell'ingegnere Ettore Fenderl: secondo un racconto da lui stesso riferito (e riportato anche in un'intervista alla radio Rai del 1957), per festeggiare il Carnevale di Trieste del 1866 avrebbe ritagliato dei triangolini di carta in quanto non aveva il denaro per comprare i confetti di gesso allora in uso.

Oggi i coriandoli sono la gioia di tanti bimbi che li lanciano durante le sfilate di carri tipiche del carnevale, ma vengono usati, più in generale, per sottolineare il carattere festoso di particolari avvenimenti.

martedì 19 gennaio 2010

ARTEMISIA: PASSIONE ESTREMA

Per riprendere a scrivere su queste pagine, ho deciso di "raccontare" un personaggio che a me piace molto, come donna ecome artista:Artemisia Gentileschi.
Artemisia fu una donna che osò andare contro le convenzioni del suo tempo, che seppe crearsi una carriera, ottenne riconoscimenti in un ambiente prettamente maschile e maschilista.
Artemisia Gentileschi è una delle poche protagoniste femminili della Storia dell'arte europea. Ma è anche la protagonista di una torbida vicenda a tinte fosche o, per meglio dire, "caravaggesche", infarcita di elementi sentimentali, erotici, patetici e fantastici, in una brillante fusione romanzesca; insomma Artemisia è la protagonista ideale del romanzo ideale (e infatti svariati romanzi e film si sono ispirati alla sua vita). Certamente la carriera artistica (come qualsiasi altra carriera) era in quell'epoca pressoché impraticabile per le donne, costrette nei limiti che la società imponeva loro: limiti di natura culturale, ovvero assenza pressoché totale di una preparazione scolastica, e familiare. Artemisia Gentileschi, che ebbe modo di fare fruttare il suo talento, è stata una delle poche donne sfuggite tra le maglie di questo rigidissimo sistema sociale, tuttavia la sua sofferta vicenda privata si è spesso sovrapposta a quella di pittrice. Negli anni Settanta del secolo scorso, la sua popolarità ha raggiunto il vertice soprattutto per via della vicenda che la vide accusare il suo violentatore (al punto da sottoporsi allo schiacciamento dei pollici, la coseddetta sibilla, per confermare l'attendibilità delle sue accuse, cosa che per lei, pittrice, non dovette essere solo un dolore fisico). Artemisia è divenuta così il simbolo del femminismo e del desiderio di ribellarsi al potere maschile: tuttavia questo fatto le fece un grande torto: l'avere spostato l'attenzione sulla vicenda dello stupro, mettendo in ombra i suoi meriti professionali, ormai ampiamente riconosciuti dalla critica.
Vissuta durante la prima metà del XVII, riprese dal padre Orazio il limpido rigore disegnativo, innestandovi una forte accentuazione drammatica ripresa dalle opere del Caravaggio, caricata di effetti teatrali; stile che contribuì alla diffusione del caravaggismo a Napoli, città in cui si era trasferita dal 1630. Nata a Roma nel 1593, Artemisia mostrò ben presto un talento precoce, che venne nutrito dallo stimolante ambiente romano e dal fermento artistico che gravitava intorno alla sua casa, frequentata assiduamente da altri pittori, amici e colleghi del padre. La prima opera attribuita alla diciassettenne Artemisia è la Susanna e i vecchioni del 161o. La tela lascia intravedere come, sotto la guida paterna, Artemisia, oltre ad assimilare il realismo del Caravaggio, non sia indifferente al linguaggio della scuola bolognese, che aveva preso le mosse da Annibale Carracci. Per la critica è stato impossibile non associare la pressione esercitata dai due vecchioni su Susanna al complesso rapporto di Artemisia con il padre e con Agostino Tassi, il pittore che nel 1611 la stuprò. Il padre denunciò il Tassi che dopo la violenza, non aveva potuto "rimediare" con un matrimonio riparatore. Del processo che ne seguì è rimasta esauriente testimonianza documentale, che colpisce per la crudezza del resoconto di Artemisia e per i metodi inquisitori del tribunale. Gli atti del processo (conclusosi con una lieve condanna del Tassi) hanno avuto grande influenza sulla lettura in chiave femminista, data alla figura di Artemisia Gentileschi. La tela, che raffigura Giuditta che decapita Oloferne, impressionante per la violenza della scena che raffigura, è stata interpretata in chiave psicologica e psicanalitica, come desiderio di rivalsa rispetto alla violenza subita. Dopo la conclusione del processo, Orazio combinò per Artemisia un matrimonio con Pierantonio Stiattesi. A Firenze Artemisia conobbe un lusinghiero successo. Nel 1616 venne accettata nell'Accademia delle Arti e del Disegno, prima donna a godere di tale privilegio; dimostrò di saper tenere buoni rapporti con i più reputati artisti del tempo e di saper conquistare i favori e la protezione di persone influenti. Tra i suoi estimatori ebbe un posto di speciale rilievo Michelangelo Buonarroti il giovane, il nipote di Michelangelo: impegnato a celebrare la memoria dell'illustre antenato, questi affidò ad Artemisia l'esecuzione di una tela. La tela in questione rappresenta una Allegoria dell'Inclinazione (ossia del talento naturale). Nel 1621 Artemisia lasciò il marito e tornò a Roma con le figlie. Artemisia dimostrò di avere la giusta sensibilità per cogliere le novità artistiche e la giusta determinazione per vivere da protagonista questa straordinaria stagione artistica di Roma, lanciata verso i virtuosismi del barocco e meta obbligata di artisti di tutta Europa. Tra il 1627 ed il 1630 si stabilì, forse alla ricerca di migliori commesse, a Venezia: lo documentano gli omaggi che ricevette da letterati della città lagunare che ne celebrarono le qualità di pittrice. Nel 1630 Artemisia si recò a Napoli, valutando che vi potessero essere, in quella città fiorente di cantieri e di appassionati di belle arti, nuove e più ricche possibilità di lavoro. L'esordio artistico di Artemisia a Napoli è rappresentato forse dalla Annunciazione del Museo di Capodimonte.Poco più tardi il trasferimento nella metropoli partenopea fu definitivo e lì l'artista sarebbe rimasta, salvo la parentesi inglese,per il resto della sua vita. Napoli fu dunque per Artemisia una sorta di seconda patria dove ricevette attestati di grande stima ed ebbe rapporti di scambio alla pari con i maggiori artisti che vi erano presenti. Nel 1638 Artemisia raggiunse il padre a Londra, presso la corte di Carlo I, dove Orazio era diventato pittore di corte. Dopo tanto tempo padre e figlia si ritrovarono legati da un rapporto di collaborazione artistica. Orazio inaspettatamente morì, assistito dalla figlia, nel 1639. Carlo I era un collezionista fanatico e la fama di Artemisia doveva averlo incuriosito: non è un caso che nella sua collezione fosse presente una tela di Artemisia di grande suggestione, l'Autoritratto in veste di Pittura. Alle prime avvisaglie della guerra civile, Artemisia lasciò l'Inghilterra e tornò a Napoli dove si spense nel 1653.
Nel XX secolo, negli anni del movimento femminista, la Gentileschi divenne un vero e proprio simbolo del femminismo internazionale: associazioni e cooperative le si intitolarono (a Berlino l'albergo "Artemisia" accoglieva esclusivamente la clientela femminile) riconoscendo in essa una figura culto, sia come rappresentante del diritto all'identificazione col proprio lavoro, sia come paradigma della sofferenza, dell'affermazione e dell'indipendenza della donna. Per la nota polemista e leader del movimento femminista internazionale Germaine Greer Artemisia Gentileschi fu la grande pittrice della guerra tra i sessi. Questa lettura a senso unico della pittrice ha creato giusti malumori tra gli storici dell'arte, poichè tale affermazione di fatto è estremamente riduttiva:
un pittore con tanto talento come la Gentileschi non può limitarsi a un messaggio ideologico.

È qui la forza dei quadri della Gentileschi: nel capovolgimento brusco dei ruoli. Una nuova ideologia vi si sovrappone, che noi moderni leggiamo chiaramente: la rivendicazione femminile.
Roland Barthes (saggista e critico letterario di orientamento strutturalista)