La mia vita è cambiata da quando sono diventata mamma... Allora mi sono detta: "deve cambiare anche il mio blog!". E questo è quello che ne è saltato fuori!

mercoledì 31 ottobre 2007

HAPPY HALLOWEEN!

Come ogni anno le tradizioni si ripetono. Dopo dodici lunghi mesi di letargo, streghe, spiriti e fate stanno per riapparire lungo le strade delle città. La leggendaria notte di Halloween è ormai alle porte!Halloween (corrispondente alla vigilia della festa cristiana di Ognissanti) è il nome di una festa popolare di origine pre-cristiana ora tipicamente americana e anglosassone. Tuttavia le sue origini antichissime affondano nel più remoto passato delle tradizioni europee: risale infatti al 4000 a.C. quando le popolazioni tribali usavano dividere l'anno in due parti in base alla transumanza del bestiame. Nel periodo fra ottobre e novembre, era necessario ricoverare il bestiame in luogo chiuso per trascorrere al riparo l'inverno: è questo il periodo di Halloween.

In Europa la ricorrenza si diffuse con i Celti: all'incirca nel 2300 a.C. Questo popolo, nella notte tra il 31 Ottobre e il 1º Novembre, la notte di Samhain, celebrava la fine dell'estate e l'inizio di un propizio anno nuovo.
A sera tutti i focolari venivano spenti e riaccesi dal sacro falò curato dai Druidi. Nella dimensione circolare del tempo, caratteristica della cultura celta, Samhain si trovava in un punto fuori dalla dimensione temporale, che non apparteneva né all'anno vecchio e neppure al nuovo: in quel momento il velo che divideva dalla terra dei morti si assottigliava ed i vivi potevano accedervi. I Celti non temevano i propri morti e lasciavano per loro del cibo sulla tavola in segno di accoglienza per quanti facessero visita ai vivi. Da qui l’usanza del trick-or-treating.
I Celti non credevano nei demoni quanto piuttosto nelle fate e negli elfi, entrambe creature considerate però pericolose: le prime per un supposto risentimento verso gli esseri umani; i secondi per le estreme differenze che intercorrevano appunto rispetto all'uomo. Secondo la leggenda, nella notte di Samhain questi esseri erano soliti fare scherzi anche pericolosi agli uomini e questo ha portato alla nascita e al perpetuarsi di molte altre storie terrificanti. Si ricollega a questo la tradizione odierna e più recente per cui i bambini, travestiti da streghe, fantasmi e vampiri, bussano alla porta urlando con tono minaccioso: "Dolcetto o scherzetto?" ("Trick or treat" in inglese).
Con il dominio romano fu esportata in Britanniala festa di Pomona: una festa del raccolto che venne associata a Samhain nel tentativo di staccare il popolo britannico dal legame con i Druidi. Successivamente il cristianesimo, come già la dominazione romana, tentò di incorporare le vecchie festività pagane dando loro una connotazione compatibile con il suo messaggio.
Il 13 maggio 610 fu istituita la festa di Tutti i Santi in cui venivano onorati i cristiani uccisi in nome della fede. Per oltre due secoli le due festività procedettero affiancate, sino a che la Chiesa decise di spostare la celebrazione cattolica all'inizio di novembre al fine di detronizzare il culto di Samhain.
Nei paesi di lingua inglese la festa divenne Hallowmas, che significa: una messa in onore dei santi; la vigilia divenne All Hallows Eve, che si trasformò nel nome attuale: Halloween.
Molti pensano che furono gli irlandesi a portare le celebrazioni di Halloween in America; in realtà questa ricorrenza è legata al passato della maggior parte dei popoli europei, ognuno con le sue tradizioni. È in America che tutte queste tradizioni confluirono fino a portare alle moderne celebrazioni.
È usanza ad Halloween intagliare zucche con volti minacciosi e porvi una candela accesa all'interno. Questa usanza nasce dall’idea che i defunti vaghino per la terra con dei fuochi in mano e cerchino di portare via con sé i vivi; è bene quindi che i vivi si muniscano di una faccia orripilante che emani un bagliore sinistro per ingannare i morti.

Ora non vi resta che attendere che il vecchio Jack O'Lantern giunga a bussare alla vostra porta!

BUON HALLOWEEN A TUTTI!


martedì 30 ottobre 2007

CENA CON TARTUFI

Sabato sera, poiché gli antibiotici avevano finalmente sortito effetto e stavo lentamente tornando ad una vita attiva, ho organizzato una cena tra amici che da troppo tempo continuavo a rimandare.
L'occasione si è presentata ancora più ghiotta poiché, grazie alla zia di Casale Monferrato, ero in possesso di un paio di tartufi veramente spettacolari.
Ho dato fondo alla mia sapienza culinaria e credo di essermela cavata egregiamente. Questo il menu sul quale gli ospiti si sono avventati come famelici avvoltoi:
  • Cardo gobbo e topinambur al burro su letto di fonduta. (Con generosa grattata di tartufo bianco d'Alba).
  • Vol-au-vent con fonduta alla piemontese e tartufo.
  • Tajarin burro e salvia con tartufo. (A questo punto la trifola più bella che io abbia mai visto ha fatto il suo trionfale ingresso in tavola ed è stata affettata al momento inebriando l'ambiente a tal punto, che perfino un cane da tartufo avrebbe perso i freni inibitori!)
  • Peperoni al forno con bagna caoda.
  • Bunet alla piemontese. (Un tripudio di cioccolato e amaretti che renderebbe amabile anche un pitbull inferocito).
Vini:
  • Barolo di Fontanafredda
  • Barbaresco Le terre del Barolo
  • Moscato passito

Tutto quanto è stato cucinato con le mie sante manine senza nessun aiuto, (mio marito nel frattempo cazzeggiava sul computer!) se non quello della Bibbia di ogni massaia, ovvero il Cucchiaio d'argento, ma soprattutto, la consulenza telefonica della mia nonnina.
La cena è stata un trionfo e a breve le mie cavie...ops! I miei amici, si offriranno volontari per assaggiare l'altra parte delle mie tradizioni culinarie, ovvero una cena rigorosamente con sapori trentini.
Ma voglio lasciarvi qualche notizia su quella squisitezza che è il tartufo bianco d'Alba, al quale, in passato, sono attribuite anche doti afrodisiache.

I tartufi sono funghi che vivono nel sottosuolo in simbiosi con radici di piante.
Hanno l'aspetto di tuberi costituiti all'interno da una massa carnosa detta "gleba" ed all'esterno da una corteccia detta "peridio"; sono costituiti in alta percentuale da acqua, fibre e da sali minerali assorbiti dal terreno tramite le radici dell'albero con cui vive in simbiosi.
Sono classificati in diverse specie, tra cui le più conosciute per uso gastronomico sono:


  • Il tartufo bianco d'Alba (Tuber Magnatum Pico)
  • Il tartufo nero pregiato (Tuber Melanosporum)
  • Il tartufo nero estivo (Tuber Aestivum o Tuber Uncinatum)
  • Il tartufo bianchetto (Tuber Borchii)
  • Il tartufo nero moscato (Tuber Brumale)


Gli alberi che maggiormente accettano la "convivenza" dei tartufi con le loro radici sono il pioppo, il tiglio, la quercia e il salice. Sono proprio queste piante a determinare il colore, il sapore ed il profumo dei tartufi. Ad esempio i tartufi che crescono nei pressi della quercia, avranno un profumo piu' pregnante, mentre quelli vicino ai tigli saranno piu' chiari ed aromatici.
La forma dei tartufi invece dipende dal tipo di terreno: se questo è soffice i tartufi saranno tendenzialmente lisci e tondeggianti; se compatto e argilloso saranno più nodosi poichè maggior faticheranno a trovar spazio per la crescita nel terreno.
La tartuficoltura studia il particolare fenomeno ormai da decenni con l'obiettivo di riuscire in un prossimo futuro a produrre tartufi in colture arboree sotto il diretto controllo dell'uomo. Per alcuni tipi di tartufi si hanno già buoni risultati (ne sono un esempio le piantagioni per i tartufi neri pregiati), mentre molta strada si deve ancora percorrere per ottenere risultati simili nella produzione dei tartufi bianchi d'Alba, che per questo è così raro e pregiato. La ricerca del tartufo è affidata da sempre al binomio inscindibile tra l'esperienza dell'uomo (il "trifolao", come viene chiamato in Piemonte il cercatore di tartufi) nell'individuare le piante idonee e l'infallibile fiuto del suo cane che, individuato il punto esatto, scava freneticamente per portare alla luce il prezioso e profumato tesoro. La raccolta avviene prevalentemente al calar delle tenebre, più che altro per evitare di favorire la concorrenza degli altri cercatori nell'individuare i luoghi più idonei. Un mondo, quello del tartufo, che richiama inevitabilmente alla durezza di una vita contadina, oggi completamente e fortunatamente cambiata, che un tempo individuava nella possibilità di trovare tartufi da vendere al mercato di Alba e destinati poi alle tavole dei nobili e dei re, una tra le poche occasioni di realizzo e sostentamento. La capitale delle Langhe ha avuto il grande merito di saper valorizzare per prima, da più di un secolo, questo straordinario fungo sotterraneo. Un percorso che è iniziato di pari passo con l'affermazione internazionale dei grandi vini del territorio albese: Barolo e Barbaresco. In questa breve storia non si può non ricordare la figura di Giacomo Morra, albergatore e ristoratore dell'Hotel Savona che, già negli anni '30 battezzò il Tuber Magnatum Pico con il nome Tartufo Bianco d'Alba, che contribuì non poco a far diventare celebre ovunque.


Ancora oggi, questo prezioso frutto della natura continua ad essere un gioiello avvolto dal fascino ed un pizzico di mistero e noi possiamo solo gustarlo e stimarlo come la natura lo ha creato.


venerdì 26 ottobre 2007

POST PROMOZIONAL-CULINARIO

La tosse persistente non mi lascia dormire. Sono stufa di rigirarmi nel letto adagiata su una pila di cuscini che sembro un'eroina da romanzo ottocentesco che sta per morire di tisi (...le rose del volto già sono pallenti... Ma va! Sono rossa come un pomodoro per la febbre, altrochè! E poi non ci sono più gli uomini che ti cantano Parigi, o cara, noi lasceremo.... A parte il fatto che abito nella Pianura Padana). Ma alle tre del mattino, a parte una camomilla, cosa posso fare?
...Su vediam della mia mente qualche mostro singolar... (ok, ascoltare l'opera mi ha dato alla testa!).
Ecco, ho partorito un post sfacciatamente propagandistico.
Diciamo che visto che ho uno zio che è anche un grande chef che si diverte a smanettare tra i fornelli quasi quanto al pc, ho deciso che anche altri blogger dovevano subire gli attentati alla linea e al colesterolo con cui lui tormenta tutta la famiglia da quando gli è presa questa nuova mania! (Preciso che la nonna, con cui vive lo zio, è ultraottantenne, ma ha delle coronarie di ferro!).
Ed è anche molto bravo, a parte il fatto che quando si mette all'opera riduce la cucina peggio che se fosse passato un esercito di chef di Slow Food con tutti i più sofisticati attrezzi. Va beh, quelli son cavoli di chi deve pulire, del resto i cuochi sono dei creativi, no?
Io per fortuna non ho problemi di linea, ma quando in ottobre ho avuto lo zio Pepe ospite per qualche giorno, sembravo un porcellino all'ingrasso, perché vi assicuro che resistere a certi profumini e alle presentazioni che si diletta a inventare per le portate è assolutamente impossibile!
Ora ha aperto un blog a tema, e visto che se io ho potuto allestire questo mio piccolo spazio sfacciatamente rosa è per merito della sua infinita pazienza nello spiegarmi cosa fosse un codice Html (non che mi sia ancora del tutto chiaro!) o il layout, nonché per il fatto che gli devo più di un favore per gli interminabili pomeriggi in cui gli ho occupato il pc dell'ufficio quando, ancora studentessa liceale, dovevo fare le mie ricerche, ho deciso di procurargli un po' di lettori (tanto lo so che tra voi ci sono parecchi golosi!).
Sperando nel successo di questa mia trovata pubblicitaria (quando diventerò una famosa copywriter mi ricorderò di elargire royalties!), vi auguro di trovare spunti per fare bella figura con gli amici o semplicemente per prepararvi una cenetta da leccarsi i baffi! (Io vado a farmi la camomilla).
Mezzogiorno di Cuoco

Triglie al cartoccio cucinate dallo Zione

26 ottobre 1954. TRIESTE RITORNA ITALIANA

Il 26 ottobre 1954, alle 5.20 del mattino, Trieste si svegliò sotto la pioggia, ma quello era comunque un mattino pieno di promesse, atteso per tanti, troppi anni.
I primi ad entrare a Trieste furono i fanti dell'82° Reggimento, seguiti poco dopo dai carabinieri e dai bersaglieri dell'8° Reggimento della divisione "Ariete". Le ragazze salivano sui camion dei militari, li abbracciavano, li baciavano, cantavano, ridevano, piangevano. La gioia di quel giorno, come raccontano le vecchie foto, fu espressa da loro, le ragazze di Trieste, che con la loro euforia resero indimenticabili quelle ore. Il loro volto divenne il volto della liberazione e della vittoria. C'erano tanti soldati americani, che poi le avrebbero sposate quelle ragazze, che avevano conosciuto l'orrore di un dopoguerra in una città, come scrisse l'inviato speciale Giorgio Bocca, "che aveva avuto l'amaro privilegio di trovarsi in prima linea".
Erano passati nove anni da quando il 1° maggio 1945 i partigiani di Tito erano entrati nella città, decisi a rimanervi e con l'intenzione di far arretrare il confine italiano fino all'Isonzo se non fino al Tagliamento.
I partigiani di Tito a Trieste si comportarono da predatori: svuotano le casse della Banca d'Italia, saccheggiarono le case, violentarono le donne, il 5 maggio falciarono a colpi di mitragliatore i cortei dove sventolava il tricolore.
Poi iniziarono i sequestri in massa di sventurati, di notte scaricati vivi nelle voragini carsiche. A migliaia finirono nelle foibe del Carso.
Uno sterminio etnico esteso a tutte le zone di fatto annesse dal regime di Belgrado e che determinò l'esodo di 350.000 italiani dell'Istria e Dalmazia, che cercarono riparo in patria e che, dopo aver dovuto abbandonare le loro case e i loro beni, vennero accolti dall'ostilità dei comunisti italiani, che al pari di quelli di Tito li bollarono come fascisti, sebbene la loro colpa fosse quasi sempre solo quella di essere italiani. Li attese un destino coperto dal silenzio, voluto dai comunisti e avallato dagli opportunismi di un'Italia, che aveva bisogno di rimettersi in piedi, chiudendo con il passato.
Il 12 giugno 1945 finirono i quaranta terribili giorni di occupazione di Trieste: le truppe jugoslave abbandonarono la città e si installò il governo militare alleato. I triestini si riversarono per festeggiare la fine dell'incubo, ma il cammino per riportarli alla democrazia e all'Italia sarebbe stato ancora molto lungo.
Trieste, Piazza Unità., 26 ottobre 1954

Il 3 novembre 1953, nel 35° anniversario dell'ingresso degli Italiani a Trieste dal 1918 e festa di San Giusto, la bandiera italiana fu issata sul Municipio di Trieste, ma subito dopo fu rimossa dagli Americani.
Si formarono cortei di protesta nella città, ma la folla venne dispersa dalla polizia. Alla stazione ferroviaria si formò un corteo di mille persone, molte delle quali di ritorno dal Sacrario di Redipuglia, dove si era svolta l'annuale cerimonia commemorativa. Il 5 novembre gli studenti entrarono in sciopero e formarono un corteo che arrivava fino in Piazza Sant'Antonio. La polizia reagì con idranti e manganelli. Incidenti scoppiarono in tutta la città. La polizia, al comando di ufficiali inglesi, aprì il fuoco ad altezza d'uomo e uccise due persone. Il 6 ripresero i tumulti e gli incendi delle auto della polizia civile. La polizia aprì il fuoco per difendere gli edifici del Governo Militare Alleato. In tarda mattinata un'enorme folla convergeva in Piazza Unità, e assaliva la Prefettura. La bandiera italiana fu nuovamente issata sul Municipio e sul palazzo del Lloyd Triestino. Intervennero truppe inglesi in assetto di guerra. La polizia sparò ad altezza d'uomo. Quattro Triestini furono uccisi. Solo nel tardo pomeriggio la tensione si allentò. Titoli sui giornali di tutto il mondo parlarono della situazione di Trieste. A loro, ai caduti del 1953, alla loro memoria, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, concesse la Medaglia d'Oro al Valor Civile.

Poi, il 5 ottobre 1954 a Londra si firmò l'accordo per la riannessione di Trieste all'Italia. Trieste aveva pagato per tutti e ora poteva piangere di gioia. Alla radio Nilla Pizzi cantava: "Vola, colomba bianca, vola/ diglielo tu/ che tornerò./ Dille che non sarà più sola/ e che mai più/ la lascerò", la canzone dedicata a Trieste, che aveva vinto nel 1952 il Festival di San Remo. E quel 26 ottobre 1954 la folla, dal posto di blocco di Duino fino in città, formò un fiume umano di 25 chilometri e rimase tutta la notte ad aspettare l'arrivo dei soldati italiani. L'Italia era tornata.

domenica 21 ottobre 2007

IN ITALIA E NEL MONDO...

...Cosa mi piace e cosa no.

Beh, finora non sono stata una globeltrotter: qualche viaggetto l'ho fatto, ma di posti da visitare, città da scoprire, sapori da assaggiare, ce ne sarebbero un'infinità e spero tanto di avere la possibilità di conoscere, un po' alla volta, un po' più di mondo! Comunque, questa è la mia short list di cosa amo e cosa detesto, a casa mia e nel resto del mondo, basandomi sulla mia piccola e personale esperienza:

DELL'ITALIA:

  1. Amo la cucina (uff..che banalità! Ma se sono golosa, che ci posso fare?).
  2. Amo le testimonianze del passato: abbiamo una storia affascinante, le antiche vestigia e l'immenso patrimonio artistico, stanno a testimoniarlo.
  3. Amo i dialetti, anche se io parlo malissimo il piemontese e ho una notevole cadenza veneta, senza parlare questo idioma.
  4. Amo la ricchezza di paesaggi: dalle Alpi al mare, dalle colline alla pianura padana, lo sguardo non si stanca mai di tanta bellezza. Infatti adoro viaggiare in auto.
  5. Amo l'ospitalità della gente, in particolare al sud, dove ti senti subito a casa, anche se sei un turista.
  1. Odio la "furberia degli italiani".
  2. Odio il poco senso civico delle persone che prendono le città, ma anche l'aperta campagna come una pattumiera a cielo aperto.
  3. Odio lo stato disastroso delle autostrade, le code chilometriche che si formano, i pedaggi esosi e la carenza cronica di parcheggio nelle città!
  4. Odio il patetico teatrino a cui è ridotta la nostra politica.
  5. Odio il fatto che gli italiani per sventolare un tricolore debbano vincere una partita di calcio.

ALTROVE:

  1. Amo la cucina (anche qui!): io sperimento sempre, mi piace capire le abitudini del posto dove mi trovo e stare a tavola è un ottimo modo per iniziare!
  2. Amo la lingua: anche se io parlo solo un po' di francese e inglese, spesso mi perdo ad ascoltare i richiami dei venditori, una persona che parla al cellulare, una mamma che chiama un bimbo. E ho scoperto, ad esempio, che il tedesco è una lingua musicale e fluida, pur senza capirci una parola!
  3. Amo l'orgoglio patriottico, che da noi langue.
  4. Amo l'osservanza delle regole, che include il rispetto della cosa pubblica.
  5. Amo i costumi folcloristici: in Messico ho rischiato di tornare a casa con scialle e sombrero!
  1. Odio sentirmi dire: "Ah, lei è italiana?", come se avessero già pronto uno stereotipo da appiccicarti addosso: no, non ho i baffi, non suono il mandolino e spiaccico pure due parole nella tua lingua, mica vengo da un mondo alieno!!
  2. Odio i cuscini francesi, avete presente quei tremendi salsicciotti? Ecco, piuttosto me lo porto da casa e la cervicale ringrazia!
  3. Odio le code immense di quelli che io chiamo "turisti forzati" all'ingresso dei musei: scattano foto, senza sapere cosa stanno fotografando, fanno casino tipo gita scolastica e poi si fiondano alla caffetteria a rimpinzarsi come tacchini.
  4. Odio e soffro tremendamente la mancanze del bidet!
  5. Odio l'ansia che mi prende in aeroporto: ho il terrore che mi perdano i bagagli. Quando il mio trolley appare sul nastro trasportatore, finalmente riprendo a respirare.

mercoledì 17 ottobre 2007

OCCHIO CABALLERI, CARMENCITA ESISTE ANCORA!

Io non sono della generazione "tutti a nanna dopo Carosello", però mi sarebbe tanto piaciuto esserlo, per tanti motivi: in quegli anni c'era un ottimismo derivato dal boom economico che oggi ha lasciato posto all'ansia della precarietà, adoro la moda di quegli anni con tutte quelle gonne a ruota, l'auto dei miei sogni è una vecchia 500 bianca modello Abarth, mi piace la musica e la pittura di quel periodo e soprattutto fare la maestra sarebbe stato più facile. In particolare amo i personaggi creati per la pubblicità che uscivano dalla mente geniale di Armando Testa.
Tra questi uno in particolare mi è simpatico per la sua modernità, quasi un ragazza d'avanguardia: Carmencita. Era una cattivissima ragazza, quando ancora andavano di moda quelle brave. Una che s’appassionava alle armi, mentre le sue coetanee stavano sempre con le mani nella tinozza, a lavare panni sporchi e pulcini neri; una che si faceva beffe del matrimonio e infilava una serie di battutacce a sfondo sessuale; una che accostandosi al letto dove il suo corteggiatore giaceva ammalato, constatava entusiasta: «Caballero lei è un leone! Chissà dopo in guarigione!»; una che pronta per l’altare perdeva la testa di fronte a pistola e pistolero ed esclamava «Le sarò per sempre grata, senza lei sarei sposata!».
Lei, così trasgressiva, era una che poteva girare il mondo da sola, facendo cose interessanti e ispirando mode e movimenti. Se molte donne hanno effettivamente poi chiuso il gas e sono andate via, è stata Carmencita ad indicare la strada.
Io Carmencita ce la vedo bene a Bologna a fare autocoscienza in un gruppo femminista («Io sono mia»), e magari proprio la forma a triangolo del suo corpo può aver ispirato il gesto che le militanti in corteo facevano congiungendo pollici e indici; la immagino perfettamente a suo agio a Londra e, abbandonato lo scialletto messicano, facente parte di un gruppo di giovani punk.
Carmencita ha sicuramente fatto una puntatina a Silicon Valley, dove qualcuno, ispirandosi alla sua forma, ha progettato il puntatore del mouse.
Carmencita potrebbe essere stata una studentessa di Berlino e aver aperto con il suo corpo cicciottello e conoidale la prima breccia nel muro; sarebbe stata una perfetta musa della pop art a Los Angeles.
Il gagliardo Caballero è stato messo in ombra da tanta esuberanza e Carmencita, piano piano, si è presa tutta la scena. Ora ha un sito interamente dedicato a lei (www.carmencita.lavazza.it) e una rubrica su La Stampa: "Non c'è cuore senza spine", dove dispensa consigli saggi e ironici. Insomma, un personaggio in continuo divenire, sempre aggiornata su mode, stili e tendenze, proprio come le ragazze e le donne nate dopo di lei.

martedì 16 ottobre 2007

INIZIO (FRENETICO) DI SETTIMANA

Questa mattina mi sono svegliata e faceva freddo. Tanto freddo. Non avevo nessuna intenzione di abbandonare il tepore del piumone, ma la sveglia, implacabile, mi ha costretta ad alzarmi. Erano le 6.45: per me si tratta di notte fonda.
Mi sono vestita/truccata/pettinata a tempo record e a stomaco vuoto (quindi affamata e assonnata, potenzialmente una serial killer!) sono partita nella nebbiolina autunnale che avvolgeva il paesello addormentato, con l'ansia di trovare parcheggio in stazione prima che si scatenasse l'inferno dei pendolari forzati. Compiuta l'impervia missione, visto il largo anticipo sull'orario del treno regionale Bologna-Venezia, mi sono concessa cappuccino, caffè e sigaretta. Le mie sinapsi hanno cominciato, lentamente, ad entrare in funzione.
Sono andata a Venezia, per il programma di formazione annuale delle guide dell'Associazione Amici dei Musei e Monumenti Veneziani, di cui faccio parte. Oggi abbiamo visitato, con una guida esperta, il Museo Strumentale Musicale del Conservatorio di Musi
ca "Benedetto Marcello".
Il Conservatorio di Venezia ha la sua sede nello storico palazzo Pisani in Campo Santo Stefano, a poche centinaia di metri da Piazza San Marco, cuore della città.
Sono conservati circa cinquanta strumenti storici dei maggiori costruttori della scuola veneziana e trecento strumenti moderni usati dagli studenti. Gli strumenti più importanti sono un’arpa, incompleta, del XVII secolo; una viola d’amore del XVIII secolo; viole e contrabbassi italiani; un flauto traverso; gli oboi; gli ottavini e un fortepiano. Inoltre vi sono alcuni spartiti autografi di Richard Wagner e la sua maschera funebre: il grande compositore tedesco morì, infatti, proprio a Venezia, a Ca' Vendramin, dove oggi si trova il Casino.
A Venezia, nella splendida stagione del Rinascimento, tutte le arti conobbero una straordinaria fioritura e un posto di rilievo ottenne la musica. Grandi compositori diedero espressione della creatività veneziana, come Benedetto Marcello, a cui è intitolato appunto il Conservatorio, e Antonio Vivaldi.


Palazzo Pisani a Santo Stefano. Immagine d'epoca.


Si suonava nei molti teatri aperti al pubblico, nelle chiese, nei palazzi, nelle case, sulla terra e sull'acqua. La musica accompagnava le frequenti, fastose cerimonie pubbliche, le celebrazioni religiose, la vita privata dei cittadini. Non v'era quasi casa patrizia o cittadina in cui non si suonasse qualche strumento o non si avesse a disposizione qualche spartito, com'è testimoniato dagli inventari rimasti e da numerose testimonianze pittoriche. Prosperava l'editoria musicale: le edizioni di Petrucci, Scotto, Gardano circolavano in tutta L'Europa. La musica era quindi un momento essenziale nella cultura e nella vita del veneziano di un tempo, e vedere questa preziosa raccolta, messa insieme con amorevole cura e competenza dal Prof. Verardo, è stato come compiere una passeggiata nel passato.


Raccolta di arie per soprano e basso continuo. Sec. XVII


All'uscita, invece di precipitarmi a prendere il vaporetto, mi sono concessa una passeggiata nel tiepido sole autunnale che avvolgeva la città, creando mille giochi di luce sui canali. Ho pranzato in un minuscolo bacaro, dove mi sono riempita di cicchetti (ma quanto sono buone le polpette e il baccalà mantecato, e le mozzarelle in carrozza e i fiori di zucca ripieni e fritti!).
Sazia e con la testa leggera (sarà stato l'effetto del Pinot?), ho ripreso il treno e sono andata al lavoro. Dopo tanta bellezza, dopo aver goduto di una mattinata dove tutto intorno a me ispirava armonia, quando anche il ricordo della levataccia era quasi sfumato grazie ad altri tre caffè, anche i pestiferi ragazzini di seconda media mi sono sembrati degli agnellini.

giovedì 11 ottobre 2007

QUANTE COSE CHE NON SAI DI ME...

Un po' di spazio al mio ego e a quanto affiora dai miei pensieri, perchè, come diceva Platone, il pensare è l'anima che parla a se stessa.

E qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure...

  1. Ieri li ho citati, oggi li spiego: i morbidosi, consistevano in briciole di gomma grattugiate (si, avete letto bene!), raccolte poi in mini scatoline, tipo quelle dei tic-tac. A cosa servissero non l'ho mai capito, ma nei miei ricordi delle elementari occupano un posto importante. Il mio compagno di banco cominciò a passare la mania di grattare le gomme (quelle colorate che si trovavano nelle merendine del Mulino Bianco erano perfette!) a tutta la classe. Divenne una vera e propria mania. Io li misi (perfida!) nello yogurt di una mia compagna che non mi stava proprio simpatica, la quale si trangugiò ignara una bella dose di caucciù: di questo gesto sprovveduto ho sempre ignorato le conseguenze. Come dice Maria, se non sapessi che è vero, stenterei a credere di aver passato mesi a grattare gomme, con mia nonna che mi nascondeva le grattugine della noce moscata perché gliele riempivo tutte di gomma!

  2. Quando ero piccola la mia mamma mi vietava tassativamente le "schifezze". Avevo la nonna che cucinava fantastiche torte, ma io invidiavo le mie compagne che portavano a scuola tegolini, crostatine e girelle. Risultato: oggi ho una dipendenza grave dal cosiddetto junk food. Intendiamoci, sono una buongustaia, ma non resisto davanti a un pacchetto di patatine, una Coca Cola e quando faccio la spesa mi concedo tutto ciò che nella mia infanzia mi fu negato. Ogni tanto, vergognandomi, compro un pacchetto di Big Bubble e in macchina da sola, faccio le bolle.

  3. Una volta, giocando a Occhi di gatto, ho quasi demolito la libreria dell'ingresso. Imitando Jenny la tennista con i racchettoni da spiaggia ho disintegrato diversi soprammobili. Ispirandomi a Hilary ho tirato giù un lampadario in cui si era impigliato il nastro fatto con la bacchetta delle tende. Duellando con mia sorella con l'ausilio di bastoni, in perfetto stile Lady Oscar o Stella della Senna, le ho quasi cavato un occhio. I cartoni animati degli anni '80 hanno avuto su di me effetti devastanti e anche sulla stabilità psichica della mia mamma.

  4. Mi piace leggere di tutto, ma su alcuni libri mi fisso e ci torno su infinite volte, a volte anche saltando le pagine per rileggermi le parti che mi sono piaciute di più. Ho libri dappertutto, anche per terra, di fianco al letto e alla scrivania. A volte nascondo a mio marito i miei nuovi acquisti o nego di essere passata dalla libreria, non tanto per l'aspetto economico di questa mia passione (ma non del tutto irrilevante!), quanto per il fatto che lui sostiene che le pareti di casa non si possono espandere per ospitare pezzi aggiunti della libreria...Ma si sa, io di geometria non ci ho mai capito nulla, quindi faccio orecchie da mercante.

  5. Il mio lavoro mi piace tantissimo, anche se guadagno una miseria. Purtroppo non sono un'insegnante di ruolo e per ora seguo i ragazzi delle scuole medie e superiori che frequentano il doposcuola, ma faccio anche attività ludico-ricreativa per i bimbi delle elementari. Ho delle soddisfazioni enormi e quando un ragazzo mi racconta che l'interrogazione di storia o il tema di italiano è andato bene, mi sento partecipe del suo successo. In classe mi chiamano prof. e mi danno del tu, ma i miei preferiti sono i piccini che mi chiamano maestra Cristina.

  6. Di norma sono tranquilla e di animo pacifico. L'aggressività la sfogo giocando a tennis, dove anche le mie compagne di corso diventano avversarie e mi piace primeggiare. Ma quando perdo il lume della ragione graffio senza pietà. Una volta ho malmenato una compagna di liceo che mi aveva offeso pesantemente.

  7. A volte vorrei avere la macchina del tempo e vedere come si viveva nei periodi storici che mi affascinano. Se fosse possibile vorrei: seguire l'esercito di Alessandro Magno alla conquista dell'Asia; essere una castellana al tempo dei trovatori ed essere la dama di un cavaliere che mi dedichi delle chansons e che si batta per me nelle giostre ; vivere in una grande corte del Rinascimento e posare nuda per una Venere di Tiziano; frequentare i salotti della Versailles del Re Sole; vivere nella Parigi di fine Ottocento.

  8. Ho pochissime amiche donne anche se credo fortemente nel valore dell'amicizia. Però i rapporti veri li coltivo negli anni, infatti le mie migliori amiche sono tutte compagne di scuola o di università (Mari, Silvia, Ale e Paoletta, parlo di voi!). Per me esiste l'amicizia tra uomo e donna, basta essere sinceri ed è un'ottima occasione di confronto: prendendo un aperitivo con Max, posso capire quanto paranoiche siamo a volte noi donne!

mercoledì 10 ottobre 2007

DIFFIDATE DEGLI AVVOCATI!!!

Premetto che la mia più cara amica è laureata in giurisprudenza, che le voglio veramente bene e non ho mai dubitato della sua integrità mentale (a parte la parentesi che risale ai tempi delle elementari dei morbidosi, dove peraltro ero pesantemente coinvolta in prima persona, ma questa è un'altra storia e magari un giorno la racconterò!). Eppure, leggendo questa notizia che mi è stata girata per posta da un'altra amica (che studia giurisprudenza anche lei... ma allora vi date la zappa sui piedi da soli!), sono rimasta un po' perplessa: spero non mi capiti di avere bisogno di un avvocato, altrimenti posso solo augurarmi di capitare in mani migliori!

Il Massachusetts Bar Association LawyersJournal, ha riportato 21 domande REALMENTE chieste da avvocati a testimoni durante lo svolgimento di processi.
  1. "Dunque dottore, non è forse vero che quando una persona muore mentre dorme, non se ne rende conto fino al mattino?".
  2. "Era presente quando le scattarono questa sua fotografia?".
  3. "Il figlio più' giovane, quello di vent'anni, quanti anni ha?".
  4. "Era da solo o era solamente lei?". ("Were you alone or by yourself?" quasi intraducibile in italiano).
  5. "Fu lei o suo fratello a morire in guerra?".
  6. "Vi ha ucciso?".
  7. "Quanto erano distanti i veicoli al momento della collisione?".
  8. "Lei era li finché non se ne è andato, giusto?".
  9. "Quante volte si è suicidato?".
  10. Avvocato: "Cosi', la data di concepimento del bambino fu l'8 di Agosto?". Testimone: "Si". Avvocato: "E che cosa stava facendo in quel momento?".
  11. Avvocato: "Lei ha tre figli, giusto?". Testimone: "Si". Avvocato: "Quanti sono maschi?". Testimone: "Nessuno". Avvocato: "Qualcuno di loro è femmina?".
  12. Avvocato: "Lei dice che le scale andavano giù' fino al piano terra". Testimone: "Si". Avvocato: "E queste scale, tornavano anche su?".
  13. Avvocato: "Signor Slatery, lei ha avuto una luna di miele particolare, vero?". Testimone: "Sono andato in Europa". Avvocato: "E ci ha portato la sua nuova moglie?"
  14. Avvocato: "Da cosa è stato interrotto il suo primo matrimonio?". Testimone: "Dalla morte". Avvocato: "E dalla morte di chi è stato interrotto?".
  15. Avvocato: "Può descrivere l'individuo?". Testimone: "Era di media altezza e aveva la barba". Avvocato: "Si trattava di un maschio o di una femmina?".
  16. Avvocato: "La sua presenza qui questa mattina è dovuta alla notifica di deposizione che ho recapitato al suo avvocato?". Testimone: "No, così è come mi vesto quando vado a lavorare." (Appearance = "essere presente" ma anche "apparire", da qui il disguido intraducibile in italiano: "Is your appearance here this morning pursuant to a desposition notice which I sent your attorney?". "No, this is how I dress when I go to work").
  17. Avvocato: "Dottore, quante autopsie ha eseguito su persone morte?". Testimone: "Tutte le mie autopsie sono eseguite su persone morte!".
  18. Avvocato: "Tutte le tue risposte devono essere orali, OK? Che scuola frequenti?". Testimone: "Orali".
  19. Avvocato: "Si ricorda l'ora in cui ha esaminato il corpo?". Testimone: "L'autopsia è iniziata attorno alle 20:30". Avvocato: "E il signor Dennington era morto?". Testimone: "No, era sdraiato sul tavolo desideroso di sapere perché' gli stavo facendo un autopsia!"
  20. Avvocato: "Può fornirci un campione di urina?". Testimone: "Lo posso fare sin da quando ero piccolo!"
  21. Avvocato: "Dottore, prima di eseguire l'autopsia, ha controllato la presenza del battito cardiaco?". Testimone: "No" Avvocato: "Allora ha controllato la pressione del sangue?". Testimone: "No" Avvocato: "Ha controllato se respirasse?". Testimone: "No" Avvocato: "Allora e' possibile che il paziente fosse vivo quando ha cominciato l'autopsia?". Testimone: "No" Avvocato: "Come può esserne così sicuro dottore?". Testimone: "Perché il suo cervello era in un contenitore sulla mia scrivania" Avvocato: "Ma è tuttavia possibile che il paziente possa essere stato ancora vivo?". Testimone: "Si', è possibile che fosse vivo e che stesse facendo l'avvocato da qualche parte!".

martedì 9 ottobre 2007

44 ANNI FA: POVERA LONGARONE!

Quarantaquattro anni fa si compiva una delle più gravi tragedie umane del secolo scorso. La tragedia del Vajont.
Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso per confluire nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno.
La storia di queste comunità venne sconvolta dalla costruzione della diga del Vajont, che determinò la frana del monte Toc nel lago artificiale.
La sera del 9 ottobre 1963, l'enorme massa d'acqua, valutabile attorno ai 300 milioni di metri cubi, che si sollevò a seguito dell'impatto della frana del monte Toc , elevò un’immane ondata, che seminò ovunque morte e desolazione, cancellando, in pochi secondi, un intero territorio e quasi 2.000 vite umane. La morfologia stessa delle valli del Vajont e del Piave fu sconvolta, i danni materiali furono incalcolabili. Di Longarone restarono solo poche case; il comune di Erto fu graziato ma sparirono gran parte delle sue frazioni. La natura uscì ancora una volta vincitrice nei confronti dell'uomo e della sua presunzione.
Le avvisaglie di quanto poteva succedere c'erano state dapprima con la frana di Pontesei, nella vicina valle di Zoldo, e poi con quella del 4 novembre 1960, che aveva interessato proprio il versante instabile del Monte Toc. Sarebbe stato sufficiente cogliere il significato del toponimo della montagna (in dialetto: Toc = monte che va a pezzi, a tocchi), o dello stesso torrente (Vajont = viene giù), per evitare una delle più grandi tragedie del genere umano, ma ancora una volta altri interessi vennero considerati prioritari rispetto alla vita di migliaia di persone umane.
I tecnici della SADE e poi quelli dell'ENEL, incuranti dei segnali che la natura aveva dato, commisero tre fondamentali errori umani che portarono alla strage: costruirono la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; innalzarono la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; ma soprattutto non diedero l'allarme la sera del 9 ottobre per attivare l'evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.

I soccorsi e il recupero delle salme

La forza d'urto della massa franata creò due ondate. La prima, a monte, fu spinta ad est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allarga. Questo consentì all'onda di abbassare il suo livello e di risparmiare, per pochi metri, l'abitato di Erto. Purtroppo spazzò via le frazioni più basse lungo le rive del lago, quali Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino.
La seconda ondata si riversò verso valle superando lo sbarramento artificiale, innalzandosi sopra di esso fino ad investire, ma senza grosse conseguenze, le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario eseguito sul coronamento della diga venne divelto, così come la palazzina della centrale di controllo ed il cantiere degli operai. L'ondata, forte di più di 50 milioni di metri cubi, scavalcò la diga precipitando a piombo nella vallata sottostante con una velocità impressionante. La stretta gola del Vajont la compresse ulteriormente, facendole acquisire maggior energia: allo sbocco della valle l'onda era alta 70 metri. In un crescendo di rumori e terrore, le persone si resero conto di ciò che stava per accadere, ma non poterono più scappare. Il greto del Piave fu raschiato dall'onda che si abbatté con violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall'acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l'onda perse il suo slancio andandosi ad infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle: un’azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla direzione di spinta. Altre frazioni del circondario furono distrutte, totalmente o parzialmente: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone, Codissago nel comune di Castellavazzo. A Pirago restò miracolosamente in piedi solo il campanile della chiesa. Il Piave, diventato una enorme massa d'acqua silenziosa, tornò al suo flusso normale solo dopo una decina di ore. Alle prime luci dell'alba l'incubo, che aveva ossessionato da parecchi anni la gente del posto, divenne realtà. Gli occhi dei sopravvissuti poterono contemplare quanto l'imprevedibilità della natura, unita alla piccolezza umana, seppe produrre.

Pagina del Gazzettino dell'11 ottobre 1963

La mobilitazione a soccorso dei sopravvissuti fu generale e richiamò sul luogo, già dopo le prime ore dall'accaduto, migliaia di persone dalle più diverse estrazioni sociali. In primo luogo il battaglione "Cadore" del 7° Alpini, i Vigili del Fuoco, i Carabinieri e la Polizia che misero a disposizione tutte le loro forze disponibili. Ma occorre ricordare anche i medici, i volontari della croce Rossa e tutte le persone che si profusero in sforzi immani per prestare soccorso ai poche sopravvissuti e per recuperare e seppellire i morti. Il 10 ottobre 1963 si decise la realizzazione del cimitero delle vittime; il giorno dopo venne individuata l'area davanti al piccolo cimitero di Fortogna nel comune di Longarone.
Grande ed immediata fu l'azione di solidarietà che si manifestò in tutto il mondo: grazie ad essa, all'intervento delle autorità, dei vari Enti ed Associazioni e alla tenace volontà della popolazione locale, fu possibile in tempi brevi la ricostruzione del paese.
Le cronache del tempo riportarono editoriali ed articoli di inviati speciali del telegiornale o delle maggiori testate nazionali che si limitavano a qualche commento che per di più riguardava l'aspetto umano. Gli approfondimenti relativi alla responsabilità oggettive, tranne poche eccezioni, erano trascurati a favore dell'imprevedibilità dell'accaduto.
Il pietismo, di cui la cronaca di quei giorni era piena, dopo una quindicina di giorni lasciò il posto ad un vuoto assoluto. Assodata la responsabilità alla natura "maligna", delle quasi duemila vittime e dei sopravvissuti non venne più data notizia. Solo in occasione del processo finale il giornalismo italiano si rimise in moto, senza mai però approfondire le indagini, riportando la notizia come di un normale fatto di cronaca.
Già, perché fu aperta un 'inchiesta giudiziaria che sfociò un processo, celebrato nelle sue tre fasi dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971, che si concluse con il riconoscimento di responsabilità penale per la prevedibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi.

Longarone - Prima e dopo la tragedia

Oggi, il silenzio che accompagnò la tragedia del Vajont è stato colmato: centinaia di libri scritti da gente del posto, storici, tecnici italiani ed internazionali, che non si basano solo sulla raccolta di avvenimenti che hanno preceduto e preannunciato la tragedia e sulle crude testimonianze delle ore drammatiche, ma sono andati a scandagliare in profondità all'accaduto, svelando i retroscena delle inchieste e i fatti relativi alle responsabilità, ai processi, senza venir meno all'indagine sociale, culturale ed economica del comprensorio colpito. A tal riguardo occorre ricordare l'ingente lavoro editoriale svolto dal Comune di Longarone.
Si sono tenute anche delle rappresentazioni teatrali che hanno riscosso un buon successo. Certamente la possibilità che è stata concessa di trasmettere in diretta, attraverso i canali televisivi, il lavoro dell'artista teatrale Marco Paolini ha suscitato un eco non indifferente, riportando alla ribalta nazionale un avvenimento che troppo presto era stato archiviato.
Un ulteriore contributo al ricordo della tragedia verrà dato da un Museo che sarà presto allestito dalla Amministrazione comunale, un progetto che sarà di esempio e di testimonianza perenne e renderà il dovuto omaggio a quanti, innocentemente, hanno trovato la morte.

Foto e informazioni dettagliate sulla storia del Vajont: www.vajont.net

domenica 7 ottobre 2007

7 OTTOBRE 1571. LA BATTAGLIA DI LEPANTO

Il Senato veneto: "Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit" ("Non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori").

Il 7 ottobre 1571 ebbe luogo la Battaglia di Lepanto storico scontro tra le flotte dell'Impero Ottomano e della cristiana Lega Santa che riuniva forze navali di Venezia, della Spagna, dello Stato Pontificio, di Genova, dei Cavalieri di Malta e di Savoia.
La battaglia si concluse con una schiacciante vittoria delle forze alleate, guidate da Don Giovanni d'Austria, su quelle ottomane di Mehemet Alì Pascià, che perse la vita nello scontro.
La coalizione cristiana era stata promossa da Papa Pio V per soccorrere la veneziana città di Famagosta, sull'isola di Cipro, assediata dai Turchi e strenuamente difesa dalla guarnigione locale. La flotta della lega aveva lasciato Messina, riunendo 150 navi veneziane tra galee, navi da carico, imbarcazioni minori e 6 potenti galeazze, 79 galee della Spagna, 12 galee toscane noleggiate dal Papa, 28 galee genovesi e le forze maltesi degli Ospitalieri. Il 5 ottobre, giungendo in cerca di riparo dalla nebbia e dal forte vento nel porto di Viscando, la flotta cristiana fu raggiunta dalla notizia della caduta di Famagosta e dell'orribile fine inflitta dai musulmani a Marcantonio Bragadin, il senatore veneziano comandante la fortezza. Il 1° agosto i veneziani si erano arresi con l'assicurazione di poter lasciare indenni l'isola di Cipro, ma il comandante turco non aveva mantenuto la parola e i veneziani erano stati imprigionati e incatenati ai banchi delle galee turche. Il 17 agosto Bragadin era stato scorticato vivo di fronte ad una folla di musulmani esultanti e la sua pelle, conciata e riempita di paglia, era stata innalzata come un manichino sulla galea di Mustafà Lala Pascià insieme alle teste di Alvise martinengo e Gianantonio Querini. I macabri trofei erano poi stati inviati a Costantinopoli, esposti nelle strade della capitale ottomana ed infine portati nella prigione degli schiavi.
Nonostante il maltempo le navi della Lega presero il mare verso Cefalonia. Il 7 ottobre, il giorno di Santa Giustina, Don Giovanni d'Austria fece schierare le proprie navi in formazione serrata, deciso a dar battaglia. Per cominciare Don Giovanni decise di lasciare isolate come esca le poche ma fortissime galeazze veneziane al comando di Antonio e Ambrogio Bragadin, parenti del senatore scorticato vivo, camuffandole da navi da carico, le quali all'avvicinarsi dei Turchi ignari, gli scaricarono cannonate con una potenza di fuoco probabilmente mai vista prima al mondo fino a quel giorno. Lo scontro si accse subito violento.
Per i cristiani gli scontri all'inizio coinvolsero pesantemente l'ammiraglio veneziano Agostino Barbarigo: la galea del Barbarigo divenne teatro di un epica battaglia nella battaglia con almeno due capovolgimenti di fronte. Ferito gravemente alla testa, Barbarigo morì e le retrovie dovettero soccorrere i veneziani per scongiurare la disfatta.
I Turchi iniziarono l'assalto alle navi di Don Giovanni. Quando i legni giunsero a tiro di cannone i cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Don Giovanni innalzò lo stendardo con l'immagine del Redentore Crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i combattenti ricevettero l'assoluzione secondo l'indulgenza concessa dal Papa per la Crociata.
Il vento improvvisamente cambiò direzione. Le vele dei Turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono. Don Giovanni d'Austria puntò diritto contro la Sultana.
Nell'infervorare della battaglia, il comandante in capo ottomano Alì Pascià cadde (o forse si suicidò per evitare l'umiliante cattura). La visione del condottiero Ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire il morale dei Turchi. Di lì a poco, infatti, alle quattro del pomeriggio, le navi ottomane rimaste, abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente. Del teatro della battaglia restava uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti. Erano trascorse quasi cinque ore quando la battaglia ebbe termine con la vittoria della flotta cristiana. Don Giovanni d'Austria riorganizzò la flotta per proteggerla dalla tempesta che minacciava la zona e inviò galee in tutte le capitali della lega per annunciare la clamorosa vittoria.
Sicuramente lo schieramento cristiano vinse anche grazie alla superiorità schiacciante delle inabbordabili e potentemente armate galeazze e al superiore armamento individuale.
Questa battaglia fu la prima grande vittoria di un'armata o flotta cristiana occidentale contro l'Impero Ottomano e, quindi, ebbe anche un'importanza psicologica dato che fino a quel momento i Turchi avevano vinto le precedenti battaglie contro i cristiani. Nonostante la devastante sconfitta turca, la scarsa coesione tra i vincitori impedì alle forze alleate di sfruttare appieno la loro vittoria ed ottenere una supremazia duratura sugli Ottomani. I veneziani, infatti, non riottennero il possesso di Cipro, costretti a firmare una pace separata con i Turchi. L'Impero Ottomano, infatti, iniziò subito una poderosa opera di ricostruzione della flotta, a seguito della quale, pur riacquistando la supremazia numerica nei confronti della coalizione cristiana, perse comunque il controllo completo dei mari, specialmente del Mediterraneo occidentale.
I cristiani naturalmente attribuirono la loro vittoria soprattutto alla protezione della Vergine Maria, tanto che nell'anniversario della battaglia fu fissata la festa della Madonna del Rosario. Dopo la vittoria di Lepanto, San Pio V decretò che ogni prima domenica di ottobre si sarebbe dovuta commemorare con rito semplice Nostra Signora della Vittoria.
All'alba del 7 ottobre 1571, esattamente quattrocentotrentasei anni fa, proprio la prima domenica di ottobre, aveva inizio nelle acque di Lepanto una delle più grandi battaglie navali della storia, frutto glorioso degli sforzi della Cristianità.
Mi sembra importante ricordarne l'anniversario, in particolare in questo momento storico, in cui si riaffaccia prepotente ed aggressivo in Occidente l’aggressione violenta e terroristica del fondamentalismo islamico. Lepanto fu una grande vittoria dell'Occidente, una vittoria della Cristianità. Una vittoria contro un mondo arabo, musulmano, islamico e ferocemente aggressivo. Un mondo però che ogni volta (a Salamina, a Maratona, a Poitiers), si è infranto contro il valore degli europei, decisi a non cedere la propria terra e le proprie radici, a non lasciare annientare la propria cultura e civiltà fino all'estremo sacrificio.
La Battaglia di Lepanto avvenne in un'epoca nella quale la Cristianità non confondeva ancora la carità, con una solidarietà che ne è oggi la caricatura, o forse solo una scusa per chi è disposto a sacrificare la propria civiltà. A Lepanto e poi a Vienna, l'Europa difendeva il suo modello di civiltà e difendeva anche, le sue chiese e le sue istituzioni. Oggi di fronte all’aggressione del fondamentalismo islamico, ad Al Queida e Bin Laden, la nuova flotta islamica, gran parte dell’Occidente sembra aver perso ogni riferimento all’orgoglio di appartenere ad un mondo libero.
Anche ai tempi di Lepanto la pace era un sentimento condiviso da tutti. Però nessuno era pacifista. Dovremmo oggi dopo le Torri gemelle, Madrid e Londra, rammaricarci che per impedire di perdere le nostre radici e la nostra cultura si debbano combattere delle guerre?

« Fratei, forza al remo, demoghe addosso! » (La galera Gran Capitana di Venezia alla galera reale di Napoli nella giornata di Lepanto, dopo il disalberamento della prima linea turca, presa sotto il fuoco a lunga distanza delle grandi galeazze venete).

lunedì 1 ottobre 2007

DERBY DELLA MOLE. LA JUVE PRENDE IL TORO PER LE CORNA

Dopo quattro anni si torna ad assaporare il derby sotto la Mole. La Juventus ritrova il Torino nel posticipo serale della sesta giornata d’andata. Una sfida che oltre al fascino, assume una grande importanza anche per la classifica. Il successo dell’Inter a Roma e le sconfitte di Palermo e Napoli, potrebbero lanciare i bianconeri soli al secondo posto, ad un solo punto dai nerazzurri e davanti alla Fiorentina.
Il ritorno al derby ha un gusto è estremamente amaro per i tifosi granata: dopo una partita giocata alla pari con i bianconeri, il Toro subisce la rete della sconfitta: una volée da centro area di Trezeguet (goal n.102 in serie A, n.147 con la maglia bianconera). Una prodezza al 48’ della ripresa che ha mandato in visibilio la curva Scirea e che ha portato tre punti d’oro per proseguire la rincorsa all’Inter capolista. Proprio a sette giorni dalla difficile sfida in casa della Fiorentina.
E’ una gioia da tre punti. Un gioia attesa quattro anni. L’astinenza dei granata dura ancora: dal 1995 la Juventus non perde una sfida sotto la Mole.

JUVE, STORIA DI UN GRANDE AMORE
BIANCO CHE ABBRACCIA IL NERO
CORO CHE SI ALZA DAVVERO, PER TE

SCONTRI CON I NO TAV. ORA SI CONVOCANO I POLIZIOTTI

I poliziotti non ci stanno. Giustamente. Tanto che il Sap minaccia di organizzare una grande manifestazione di protesta sotto la sede della Corte dei Conti a Roma.
Il motivo dovrebbe essere fonte di indignazione per un qualsiasi Paese civile: un centinaio, tra agenti, funzionari e dirigenti hanno ricevuto in queste ultime ore una notifica firmata dal procuratore regionale della Corte dei Conti del Piemonte, Ermete Bogetti. Così il testo: «Istruttoria n. 2005/00678/BGT, prot. N. 49205, azione di responsabilità per danno alla finanza pubblica nei confronti di appartenenti alle Forze dell’Ordine per comportamento lesivo dell’immagine del Corpo e dello Stato, in occasione di intervento in Val di Susa nella notte tra il 05 e il 06 dicembre 2005».
La notifica è stata inviata a poliziotti che si trovavano in Val di Susa, quando i No-Tav avevano occupato, con l’aiuto di anarchici e autonomi, i cantieri dell’Alta Velocità. Ricordo che questi signori furono accusati di accusati di «devastazione e saccheggio».

I poliziotti convocati dovranno presentarsi a Torino nella veste di «testimoni informati dei fatti».
La situazione è quantomeno anomala, dal momento che la procura della Repubblica di Torino aveva già chiesto l’archiviazione per alcuni procedimenti relativi agli incidenti di Venaus in cui erano proprio indagati i dirigenti della polizia; evidentemente la Corte dei Conti del Piemonte procede imperterrita nel suo iter, del tutto indifferente ai risultati delle inchieste condotte dai pm torinesi.
Durissima la replica Il segretario generale del Sap, Filippo Saltamartini: «E’ in atto un aperto conflitto tra le istituzioni dello Stato. Noi andremo oggi dal ministro degli Interni, Giuliano Amato, per chiedere un intervento diretto e senza equivoci, per tutelare le forze dell’ordine dalle incursioni della Corte dei Conti. Vogliamo una risposta chiara e rapidissima. E’ in gioco il ruolo stesso della polizia di Stato, nella salvaguardia e nella tutela della democrazia. Ma come si fa ad avviare un procedimento del genere, che potrebbe concludersi con delle sanzioni finanziarie nei confronti di chi ha fatto solo il proprio dovere? E’ una vergogna intollerabile. Affideremo la difesa degli agenti a un collegio difensivo. E’ una vicenda grottesca, c’è qualcosa di incomprensibile».
E dire che la polizia ha fatto solo il proprio dovere, cercando arginare la furia devastatrice di chi cerca in ogni pretesto la scusa per poter incendiare cassonetti e spaccare tutto quello che gli capita sotto tiro.
Va ricordato che al termine dei disordini scoppiati durante lo sgombero ci furono diversi feriti tra le Forze dell'ordine.
Le posizioni di chi è stato convocato, dopo il confronto, potrebbero aggravarsi e trasformarsi in «imputati». Ma di che? Un mistero. A meno che anche il giudice non faccia parte dei No-Tav.